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Antonio Iosa
Dibattito sull’eredità del terrorismo presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica
Anni di piombo: “Non fu una guerra”
Federico Russo | 12 aprile 2019

Gli anni di piombo non si sono esauriti con la fine del fenomeno della lotta armata. Ancora adesso, a distanza di decenni, ci sono persone e famiglie che ne vivono le conseguenze. Il convegno “L’eredità degli anni di piombo”, che si è tenuto giovedì 11 aprile presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università Cattolica di Milano, chiarisce il proprio scopo fin dal sottotitolo: “Promuovere processi di rielaborazione sociale tra memorie traumatiche e oblii”. Memoria individuale ma anche memoria collettiva, due fili tenuti insieme soprattutto da un intervento: quello di Antonio Iosa, presidente della Fondazione Carlo Perini che assieme al già citato Dipartimento ha organizzato l’incontro.
Dopo i saluti introduttivi (tra cui quelli del vicesindaco di Milano Anna Scavuzzo), Iosa ha ricordato la sua esperienza di vittima di un ferimento in uno degli episodi più drammatici della Milano di quegli anni: l’irruzione nel 1980 di un commando delle BR (Brigate Rosse) in una sezione della DC (Democrazia Cristiana) di Quarto Oggiaro, con gambizzazione di quattro dirigenti del partito. Iosa, uno dei quattro, era nel mirino dei brigatisti per l’impegno di avvicinamento tra cattolici e marxisti cui si era dedicato con la creazione del Circolo Perini. Da allora decine di operazioni chirurgiche, i segni permanenti sul corpo e un sogno ricorrente: la giovane ragazza col basco che gli aveva puntato contro la pistola. Solo incontrandola, ormai invecchiata, è riuscito a cancellarla dai suoi sogni. Sul fronte della memoria collettiva, per Iosa c’è stata una riconciliazione, ed è stata messa in atto dalle Istituzioni italiane che son riuscite a contrastare un fenomeno eversivo senza rendere a sua volta lo Stato “eversivo”, senza uscire cioè dai binari della Costituzione.
Lo stesso concetto è stato ripreso da due uomini delle istituzioni che hanno successivamente preso la parola: Virginio Rognoni e Armando Spataro. Per il 94enne Rognoni, che divenne ministro dell’Interno successivamente all’omicidio Moro, «non c’è stata una guerra... Il terrorismo è stato combattuto con le armi della democrazia. Non abbiamo avuto tribunali speciali: ogni terrorista arrestato è stato consegnato al suo giudice naturale». Il termine “guerra” utilizzato da molti per relativizzare quello che accadde in quegli anni pone dunque anche un problema di ridefinizione delle parole, per recuperare un corretto rapporto con la memoria. Sulla stessa falsariga, ma ancor più radicale, l’intervento del magistrato Spataro, che ha bollato come “balle colossali” alcune delle convinzioni che nel tempo si sono sedimentate (ad esempio, «l’attribuzione allo Stato di complicità e connivenze») e ha ricordato come in quegli anni lui e altri PM, impegnati nella lotta al terrorismo, sentirono l’esigenza di prendere la parola nel dibattito pubblico («uscimmo dalle aule di giustizia») per contrastare l’equazione «né con lo Stato né con le BR».
I media, invece, come hanno raccontato quelle vicende? A questo tema ha dedicato il suo intervento il giornalista Giovanni Bianconi, tra i massimi studiosi dei fatti di quegli anni. Finché il pericolo terrorista è stato vivo - è la sua analisi - i protagonisti sono rimasti anonimi perché tutta l’attenzione era concentrata sulla sopravvivenza delle Istituzioni. Solo dopo, a conflitto terminato, è stato possibile dare un volto alle persone: prima ai terroristi, e poi negli anni a venire anche alle vittime. Manca però ancora una vera elaborazione di quel periodo, come dimostra - sempre per Bianconi - l’enorme risalto mediatico che ha avuto l’arresto di Cesare Battisti, uomo certamente colpevole di azioni gravi; ma personaggio del tutto marginale, così come il suo gruppo di appartenenza, nella storia globale di quegli anni.

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